Commento sentenza Argentino Giovanni
Corte d’Appello di Torino 2 maggio 2019 n. 184 – Sezione Lavoro – Pres. Dott. Federico Grillo Pasquarelli
Il giudice può pervenire all’identificazione del nesso causale che intercorre tra le malattie professionali ad eziologia multifattoriale e l’attività lavorativa svolta, anche al cospetto di un intreccio di fattori causali. La giurisprudenza sul punto rifiuta un approccio rigidamente deterministico, non ritenendo indispensabile il raggiungimento della certezza assoluta tra i due termini del nesso causale, bensì reputa sufficiente a tale scopo una relazione di tipo probabilistico in cui venga raggiunta un’alta probabilità logica. Nel singolo caso è necessario dimostrare, tramite un modo razionalmente controllabile, che senza il comportamento dell’agente, con un alto grado di probabilità logica, l’evento non si sarebbe verificato, (servendosi del c.d. giudizio contro-fattuale): è necessario in sostanza che le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (c.d. legge scientifica o di copertura) vengano confrontate con le specifiche emergenze relative al caso concreto, così da poter restringere lo spettro delle possibili “cause alternative”.
Il caso.
INAIL proponeva appello avverso la sentenza di primo grado che lo condannava a riconoscere una rendità per inabilità permanente ad un lavoratore nella misura del 30% per adenocarcinoma del colon. Ciò che l’appellante lamenta è una mancata individuazione, da parte del CTU di primo grado, di “specifici agenti patogeni” a cui il lavoratore può essere stato esposto al di fuori dal solo amianto, per il quale l’IARC ha riconosciuto una limitata evidenza carcinogenetica, deducendo che i fattori di rischio per il tumore al colon sono altri (età, sesso maschile, tabagismo, infezioni intestinali).
Suddetta eccezione viene superata dal lavoro congiunto dello studio legale Crescimbeni-Lavari e dello studio Volpe tramite la logica processuale del giudizio contro-fattuale: il CTU di primo grado dichiara che, sebbene il tumore del colon retto non risulti tra le patologie universalmente accreditate come “asbesto dipendenti”, è pur sempre vero che vi sono forti e robuste evidenze in letteratura secondo cui l’esposizione alle fibre di amianto incrementi in maniera significativa il rischio di una neoplasia colonrettale; quanto ai fattori di rischio individuali, il CTU ha in aggiunta precisato che il lavoratore non solo non presentava fattori di rischio genetici (quali ad esempio patologie predisponenti), ma anche che il vizio del fumo di sigaretta comportava un fattore di rischio minimo per la patologia in esame, giungendo alla conclusione che il lavoratore non manifestasse altri fattori di rischio tali da giustificare la malattia se non, per l’appunto, quello lavorativo. Il giudice di secondo grado ha ritenuto quanto riportato dal CTU coerente con la giurisprudenza della S.C. che riconosce l’esistenza del nesso di causalità anche nelle malattie professionali ad eziologia multifattoriale, purchè siano rispettati i principi di equivalenza delle condizioni e di alta probabilità logica rispetto al singolo caso concreto.
La decisione.
L’appello viene ritenuto infondato e di conseguenza respinto, poichè la Corte di Merito, in conformità a quanto più volte dichiarato dalla S.C., tende a non escludere aprioristicamente la possibilità di dar prova del nesso causale nei casi di malattie ad eziologia multifattoriale, senza fare mistero tuttavia circa la maggior difficoltà incontrata dal lavoratore in ambito di onere probatorio: questi sarà chiamato, in conformità a quanto stabilito dall’art. 2697, a dar prova dell’esposizione al rischio e del nesso di causa, prova che, come avvenuto nel caso di specie, sarà raggiungibile ricorrendo allo strumento del giudizio contro-fattuale.
Precedenti.
Cass. 10430/2017, Cass S.U. penali 30328/2002 e Cass. S.U. civili n. 581/2008.